Articoli con tag ‘virtù’

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Bello il paragone tracciato tra Diogene e il cane. Uno spunto per pubblicarlo e, per un attimo, fermarsi a filosofeggiare.

diogene

Diogene: riaccendi la lanterna

Quest’uomo con una lanterna in mano, mezzo svestito, che aveva per propria dimora una botte è Diogene, il filosofo Greco  che cercava col lanternino l’uomo che avesse conservato la virtù più difficile da trovare sulla Terra. Lui non pensava che tale virtù fosse la saggezza, ma una qualità tanto rara che per trovarla gli serviva almeno un po’ di luce dal momento che cercarla e trovarla era come andar di notte. Quest’uomo è Diogene il cinico, colui che si comportava cioè con la stessa semplicità del cane (dal greco kunòs), che vive nel presente senza ansietà esattamente come un cane, che sa istintivamente chi è amico e chi è nemico a differenza degli uomini che spesso ingannano e sono ingannati.

Diogene aveva scelto di comportarsi come “critico” pubblico: la sua missione era quella di dimostrare agli antichi Greci che che la saggezza e la felicità appartengono all’uomo che è indipendente dalla società.

Di lui si dice che sarebbe stato uno degli uomini più buoni del mondo.

La virtù che non ha mai trovato e che ha cercato in lungo e in largo è la gratitudine.

Nulla mi toglie dalla testa però che egli abbia infine ripiegato nell’allontamento e nella volontaria indipendenza dalla società proprio perchè la sua vera ricerca sarebbe fallita. Non trovando la gratitudine si è infine accontentato della saggezza, liberandosi così di quella società nel quale egli non trovava ciò che maggiormente cercava.

Se dunque ciò è essere cinici, non esiste forse davvero più gran qualità ed elevatezza d’animo  o sensibiltà che il cinismo.

Fonte: Enjambement

 

La morte del proprio cane è un dolore che merita rispetto


ricordo di Botswain Questo articolo è dedicato a chi pensa di avere sofferto troppo per la scomparsa del suo cane.

Il dolore è tale quasi da vergognarsi di provarlo. Si cerca di trattenere le lacrime quando si parla di come se ne è andato per paura di sentirsi dire “…ma tanto è solo un cane”; si teme di rendersi ridicoli, di non essere capiti e si erigono delle barriere: preferiamo non parlarne o lo facciamo brevemente, cambiando subito discorso.

Queste emozioni sono assolutamente comprensibili: i cani fanno parte della famiglia a tutti gli effetti. La sofferenza che si prova fa parte del processo del lutto che si attraversa quando perdiamo o ci separiamo da un affetto.  Con il tempo il dolore si attenua per lasciare spazio ai ricordi dei  momenti belli passati insieme.  Si riflette sulla vita di tanti poveri animali maltrattati, malati e non curati, privati della loro dignità, cani legati a catene, vite  incominicate e finite in squallidi canili… e allora abbiamo la certezza di avere fatto stare bene il nostro cane e possiamo ricordarlo con sereno affetto.

Un esempio di quanto e fino a che punto si possono amare i nostri cani viene da Lord Byron che all’inizio del 1800 fece stilare un epitaffio per il suo amatissimo Boatswain.  Quando esso morì  scrisse sulla sua tomba “Boatswain possedeva la bellezza senza la vanità, la forza senza l’insolenza, il coraggio senza la ferocia, e tutte le virtù dell’uomo senza i suoi vizi.”

Lord Byron, due secoli fa, aveva già colto l’essenza dei nostri cani.

 

Il cane di Odisseo


Mentre questo dicevano tra loro, un cane
che stava lì disteso, alzò il capo e le orecchie.
Era Argo, il cane di Odisseo, che un tempo
egli stesso allevò e mai poté godere nelle cacce,
perchè assai presto partì l’eroe per la sacra Ilio.
Già contro i cervi e le lepri e le capre selvatiche
lo spingevano i giovani; ma ora, lontano dal padrone,
giaceva abbandonato sul letame di buoi e muli
che presso le porte della reggia era raccolto,
fin quando i servi lo portavano sui campi
a fecondare il vasto podere di Odisseo.
E là Argo giaceva tutto pieno di zecche.
E quando Odisseo gli fu vicino, ecco agitò la coda
e lasciò ricadere la orecchie; ma ora non poteva
accostarsi di più al suo padrone. E Odisseo
volse altrove lo sguardo e s’asciugò una lacrima
senza farsi vedere da Euméo; e poi così diceva:
” Certo è strano , Euméo, che un cane come questo
si lasci abbandonato sul letame. Bello è di forme;
ma non so se un giorno, oltre che bello, era anche veloce
nella corsa, o non era che un cane da convito,
di quelli che i padroni allevano solo per il fasto “.
E a lui, così rispondevi, Euméo, guardiano di porci:
” Questo è il cane d’un uomo che morì lontano.
Se ora fosse di forme e di bravura
come, partendo per Troia, lo lasciò Odisseo,
lo vedresti con meraviglia così veloce e forte.
Mai una fiera sfuggiva nel folto della selva
quando la cacciava, seguendone abile le orme.
Ma ora infelice patisce. Lontano dalla patria
è morto il suo Odisseo; e le ancelle, indolenti,
non si curano di lui. Di malavoglia lavorano i servi
senza il comando dei padroni, poi che Zeus
che vede ogni cosa, leva a un uomo metà del suo valore,
se il giorno della schiavitù lo coglie “.
Così disse, ed entrò nella reggia incontro ai proci.
E Argo, che aveva visto Odisseo dopo vent’anni,
ecco, fu preso dal Fato della nera morte.

(Odissea libro XVII, versi 290-329)